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Ho provato a scrivere “importanza del microcredito” su Google. Ho trovato in inglese più di 50mila referenze e pubblicazioni e in italiano più di 110mila. Dunque, la sua rilevanza è nota.

Sono infatti moltissimi gli studi sull’impatto del microcredito. Alcuni lo indicano esplicitamente quale il più efficiente e meno costoso strumento di creazione e di inclusione sociale. Tra questi lo specifico lavoro svolto dal Politecnico di Milano, (Centro Tiresia, dicembre 2018 studio di impatto sociale relativo a 27 milioni erogati a 1.900 microimprese). Ha evidenziato in modo oggettivo che:

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  • il ritorno economico per lo Stato è calcolato in 56 milioni (somma di entrate contributive e fiscali più riduzione dei sussidi)
  • l’aumento del benessere in termini di qualità della vita è stato significativo per quasi l’80% dei beneficiari, soggetti tendenzialmente più esclusi, migranti economici, giovani, donne
  • nonostante la mortalità d’impresa sfiori il 25% nei primi 36 mesi, la creazione di impiego è stata stimata da Tiresia in 3.800 posti di lavoro.

In sintesi, per ogni 20 mila euro di prestiti erogati (valore medio di un microcredito):

  • lo Stato ne incassa il doppio
  • il beneficiario ha 8 possibilità su 10 di migliorare radicalmente la propria vita
  • ogni microimpresa genera una media di due nuovi posti di lavoro, oltre all’imprenditore.

Le potenzialità dello strumento

Non male, vero?

Quale altro strumento conoscete con queste potenzialità, con questa efficacia nel creare impresa, nel convertire un disoccupato, nel dare una possibilità concreta a uno migrante regolare, a un ragazzo, a una donna?

Facciamo alcuni confronti: un disoccupato ha un “costo” medio di 18mila euro l’anno, un carcerato costa 50mila, l’allestimento di uno spazio agevolato dentro un incubatore d’imprese costa circa 15mila euro l’anno.

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I costi per far beneficiare un soggetto non bancabile di un microcredito si possono stimare come gli extra costi di istruttoria e di rischio non coperti dal normale margine finanziario perché, appunto, particolarmente elevati:

  • 2.000 euro di istruttoria
  • 4.000 euro come possibile tasso di insolvenza

rispetto a un prestito medio di 20mila euro, totale “costi” anomali di un microcredito = 6.000 euro che possiamo stimare come tre volte i costi di un normale prestito fatto a un piccolo imprenditore già bancabile. Il costo totale di un microcredito (extra costo rispetto a un credito normale) = 4.000 euro. Costo a carico dello stato, zero, anzi beneficio doppio dell’erogato.

Probabilità di successo nell’aumento sostanziale del benessere = 80%.

Ma nessuno vuole fare microcredito

Eppure, sul campo, qualcosa non funziona. nessuno vuole fare microcredito. In italia c’è un solo vero operatore professionale e dedicato (PerMicro) che opera a 360 gradi, su tutto il territorio, comprendendo l’intero ciclo: dalla ricerca del cliente, all’erogazione, al controllo del rischio, collection e quant’altro. Tutti gli altri sono microoperatori locali o consorzi di volontari/fondazioni/banche che fanno molto di sociale e niente di sostenibile, perché erogano fino a quando durano le sovvenzioni delle fondazioni, senza nemmeno preoccuparsi di fare i conti.

Una strada in salita

Anche PerMicro fa fatica. In tredici anni il suo paziente lavoro ha beneficiato circa 40mila soggetti fragili o esclusi, ha raggiunto un portafoglio di 70 milioni, ha raccolto 16 milioni di capitale e ne ha persi (investiti?) la metà per raggiungere una tormentata quasi sostenibilità.

Perché? Le ragioni, evidentemente, non sono chiarissime a tutti. Altrimenti si sarebbe provveduto a fare di più e meglio, data la straordinaria e comprovata potenza di fuoco.

I problemi principali sono tre

1. Difficoltà di intercettare la domanda

Nei Paesi sviluppati pochi vogliono fare microimpresa, maggiore è il benessere, minore è la propensione all’impresa (tasso TEA Total Early Stage Entrepreneurial Activity, altissimo nei Paesi in via di sviluppo e bassissimo in Italia, misura la propensione a fare business in proprio). In più, occorre promuovere il credito sociale anche presso gli stranieri (30 nazionalità non comunicanti tra loro), non vi è un media focalizzato sui soggetti non bancabili, non sono nemmeno ben note le caratteristiche del segmento; oltre a una domanda quantitativamente scarsa vi sono innumerevoli difficoltà di comunicazione e promozione.

Tutto ciò si traduce in un elevato costo di acquisizione cliente
2. Complessità della gestione.

Per erogare un credito occorre una macchina organizzativa molto molto complessa, che include elevati costi fissi di sede e di filiali, servono molti dipendenti e volontari (assistono sul territorio la neomicro iniziativa), una piattaforma informatica articolata, una sezione interna dedicata alla compliance (arcigna e scartoffiosa). Questo tipo di credito non può essere “fintech”, operativamente è un mix tra le banche di inizio ‘900 e alcune tecniche del 2000. Immaginate di erogare 10.000 euro oggi e poi per 72 mesi occorre una scrittura contabile che ogni mese è diversa e che può cambiare rispetto al piano…

Quindi: elevati costi delle operations
3. Incertezza dei risultati economici e ipertrofia finanziaria.

Se chiedete a quattro società di prestito come misurano il rischio, avrete quattro risposte diverse. Il conto economico di una finanziaria di erogazione è frutto di stime, parametri, obbighi, criteri che si sommano e si contraddicono. In sintesi, i ricavi sono presunti e il costo del rischio è variamente stimato, con un cocktail quanto meno incerto. Le società medio piccole di erogazione alternano due fasi cicliche: quattro anni di rincorsa alla crescita, – eroghiamo, forza con la produzione! – seguiti da un anno di maxi svalutazione del portafoglio, tagli alla struttura e dolorose ricapitalizzazioni. Quanto all’ipertrofia finanziaria questa consegue alla particolarità del meccanismo del prestito.

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Per erogare 20.000 euro (ottenendo circa 3.000 euro di ricavi divisi su 6-7 anni) devo approvvigionarmi di 20.000 euro sul mercato. Per far crescere i ricavi (presunti, causa la complessità del piano di ammortamento “francese”) devo fare crescere le erogazioni, cercando all’esterno il funding per il 90% di 20.000. In uno stato patrimoniale tipico l’equity è il 10% del portafoglio, il 90% è debito, soldi che qualcuno ha prestato perchè fare poi il prestito. La società di prestito compra e vende denaro; la società di prestito sociale lo fa, ma in condizioni peggiori, cioè a costi maggiorati.

Perciò: il risultato economico è frutto di valutazioni; per generare tremila euro di ricavi divisi su 6 anni devo reperire sul mercato del funding 18 mila euro che per i primi 3 anni peseranno moltissimo sul mio stato patrimoniale.

Ci sarebbero delle soluzioni?

Si, ma restano sulla carta. Le soluzioni sono molto chiare e tutte dipendono dall’interazione o dall’integrazione con una (o più) banche. Tutto il resto è velleitario e destinato all’insuccesso nel tempo. Una finanziaria di credito sociale sta a una banca retail come il cacio sta al pepe nelle trattorie romane, come Yin sta a Yang.

1. Abbattere i costi di acquisizione clienti. Ovvero: gli scarti della Banca diventano clienti

Presto detto: una banca ordinaria scarta diciamo il 70% delle domande di piccolo credito per mancanza di dati storici, per posizione non censita nei credit bureau, per Basilea 1,2,3..10, per impossibilità di condurre una istruttoria reale e non digitale, per oggettiva mancanza dei requisiti del richiedente, per piccola somma e piccolo reddito. Questa massa di persone cui il credito è stato negato, costituisce l’origination dell’operatore di credito sociale, perchè quella è la sua clientela. Lì in mezzo può selezionare i progetti validi e le persone competenti, perché l’operatore di credito sociale lavora come le banche di inzio ‘900: non si basa solo sui bilanci (che non ci sono) e sullo scoring, ma va a casa del cliente a vedere cosa succede, approfondisce e corregge il progetto, fa un po’ di istruttoria e un po’ di incubazione, mette dei volontari esperti a guardare l’idea, verifica, e infine seleziona, ma alla fine finanzia quelli meritevoli.

Il microcredito, infatti:

  • fa una sacrosanta istruttoria
  • filtra i soggetti gia’ rifiutati dalla banca, approvando 1 progetto su 4
  • apre un nuovo conto corrente
  • versa sul conto corrente del cliente una media di 20.000 euro
  • si assume i costi di gestione per 6-7 anni
  • si assume il rischio di credito

Cioè trasformerebbe (se la banca collaborasse) a suo onere e carico un soggetto non bancabile in un soggetto pienamente bancabile, che dopo 2-3 anni, se paga regolarmente, potrà accedere ad affidamenti, carte di credito, prodotti di risparmio.

Credete che le banche facciano la fila per avere nuovi piccoli clienti imprenditori ? No. Per aprire conti correnti completamente nuovi, soggetti che non l’hanno mai avuto? No. Nemmeno se qualcun altro fa il lavoro sporco e costoso di selezione pluriennale? No.

La ragione per cui le banche non lo fanno posso solo immaginarla come una ritirata indifferenziata dal retail, non gli interessa. O non hanno capito. O un mix dei due.

La collaborazione delle banche che ho conosciuto è ridicola: la banca si limita a permettere al proprio personale di filiale di ricevere un loan officer del microcredito, prendono forse un caffè insieme. E il loan officer supplica di passargli qualche nominativo. Così, tra amici al bar. Poi, dopo fatica improba, il loan officer supplicherà la banca di aprire un nuovo conto corrente.

E quindi:

  • Flusso informatico e organizzato = zero.
  • Budget prestabilito di lavoro= zero.
  • Interesse reale= zero, è solo favore tra semi colleghi.
2. Alleggerire il funding eccessivo e non facile da ottenere

Significa ridurre l’entità del potrtafoglio dell’operatore di microcredito e del conseguente debito oneroso.

Le proporzioni sono queste:

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  • per avere 8 milioni di ricavi (lordi, una miseria, devono coprire gli oneri di rifinanziamento, il rischio e il costo delle operations) occorre un portafoglio (medio su 12 mesi) di 70 milioni
  • per avere un portafoglio di 70 milioni occorrono 10 milioni di capitale proprio e 60 milioni (!) di debito.

Cifre enormi e ricavi esigui, vi risparmio i conti sui margini economici inesistenti, stiamo alle grandezze patrimoniali.

Provate a pensare: un credito singolo di 20.000 euro scema progressivamente in 6-7 anni, dopo 3 anni la produzione di interessi attivi rispetto al piano di ammortamento “francese” è ridotta mentre la quota capitale è rilevante. In altre parole: l’operatore di microcredito si tiene in pancia clienti che dopo 3 anni hanno dato il meglio in termini di ricavi e invece pesano non poco dal punto di vista finanziario, hanno bisogno di una massa sproprositata di debito che li sostenga. Eppure, quegli stessi clienti di microcredito che dopo 3 anni hanno esaurito la spinta in termini di ricavi, hanno anche una impresa che va meglio, che è cresciuta, ha assunto in media altre due persone, hanno pagato regolari 36 rate, sono censiti bene nei credit bureau, sono bancabili.

  • Dunque meriterebbero di ricevere un vero affidamento di forma tecnica migliore del prestito rateale, piu’ una carta di credito, più magari un prodotto di risparmio.
  • Dunque l’operatore di microcredito dovrebbe cederli alla Banca che potrebbe finalmente vendere i suoi prodotti a un cliente testato e affidabile.

Questa sarebbe vera inclusione bancaria e finanziaria, questo è il passo chiave del lungo processo di selezione + istruttoria + erogazione + assunzione del rischio + gestione operativa complessa. Finalmente il soggetto già non bancabile ha una storia positiva, ha un aging dei pagamenti che permette di proiettare probabili risultati futuri, tutto grazie all’operatore di microcredito i cui conti ancora sanguinano per le moltissime difficoltà incontrate.

Dato che il profilo del cliente nella realtà è cambiato in meglio, dopo circa 3 anni è Bancabile, dovrebbe cambiare anche il suo status, dalla finanziaria sociale incubatrice passa alla banca che puo’ dargli a ragion veduta i prodotti per l’impresa. Non solo il passaggio da finanza sociale a banca è logico e la forma segue la sostanza ma questo consente alla finanza sociale di levarsi masse di crediti dallo stato patrimoniale e conseguenti masse di debito oneroso e difficile da reperire, per tornare a fare il suo mestiere di scopritore/incubatore di impresine.

Occorre una cartolarizzazione. Succede? No.
3. Alleggerire l’entità delle perdite su crediti

Qui, almeno, ci siamo. Già oggi sono disponibili strumenti provvisti dal Fondo Europeo e dal Microcredito Centrale, si tratta casomai di incrementarne la disponibilta’ (FEI) e l’efficacia alleggerendo gli oneri burocratici e amministrativi (MCC).

4. Migliorare il quadro nel quale opera la finanza sociale = Far presente allo Stato un paio di cose.

Finora lo Stato ha fatto qualcosa per il Microcredito:

  • una legge apposita che istituisce gli operatori di microcredito cd. “111” dall’art del testo bancario, con questa legge nessuno va da nessuna parte per via delle infinite restrizioni, come al solito il legislatore si è preoccupato di cosa NON si puo’ fare e il risultato è un mix disastroso che ha fatto dichiarare a due funzionari Banca d’Italia, Diana Capone e Riccardo Basso nel libro “La complessa identita’ del microcredito (Luisa Brunori, Il Mulino 2014)” questi paletti configurano una condizione di operativita’ di tipo sovvenzionato e non di mercato.
  • ha istituito un carrozzone politico inutile e senza identità, intoccabile, denominato Ente Nazionale per il Microcredito, già oggetto di una indagine della trasmissione Report che ne ha evidenziato il carattere politico e l’assenza di una mission, ma sulla quale è sceso solo un prolungato silenzio.

Alcune proposte

Ora, con la premessa che una buona industria del microcredito è generatrice di nuovi posti di lavoro con il miglior rapporto in assoluto tra costo del microcredito e posto di lavoro creati, proviamo a descrivere alcune proposte di contesto perchè questa industria veda la luce in modo meno distratto e maggiormente consapevole.

Per quanto riguarda gli operatori iscritti all’art. 111 TUB, in senso agevolativo vanno rimossi i paletti eccessivi che caratterizzano l’attuale regolamento attuativo, mentre va introdotto l’obbligo di pubblicare i risultati in termini di impatto sociale e di ridurre gli effetti del sovraindebitamento con impegno alla riduzione ex post del TAEG nel caso di conclamata successiva evoluzione del cliente verso tale condizione

Alle banche e intermediari iscritti all’art 106 va consentito l’esercizio dell’attività di microcredito nel rispetto degli stessi vincoli degli operatori ex art. 111.

Per i soggetti vigilati che adempiono alle prescrizioni europee del Code of Good Conduct e/o con accesso accesso ai fondi e servizi EaSI/FEI, i Servizi Accessori di cui all’art 3 DM 176/14 vengono sovvenzionati, anche con ricorso alle misure Fondo Sociale Europeo/ Ministero del Lavoro.

Norme integrative

Una legge integrativa sul microcredito dovrà dirimere se l’attivita’ è riservata agli operatori ex art 111 o a tutti i soggetti vigilati e includere i temi del funding a tasso agevolato, di efficaci fondi di garanzia, di fiscalità vantaggiosa:

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per il neo imprenditore occorre l’esenzione dalla contribzione INPS per i primi 12 mesi, gravosissimo onere che all’inizio dell’attività di una microimpresa è del tutto insostenibile

per l’operatore di finanza sociale:

  1. esenzione IRAP in analogia a quanto previsto dalla legge 244/2007
  2. deducibilita’ integrale delle perdite su crediti, intese come prestiti con almeno 7 rate consecutive insolute
  3. esenzione IRES per la porzione di utili accantonati a Riserva Sociale indisponibile
  4. esenzione dalle comunicazioni AUI qualora l’operativita’ sia integralmente svolta tramite servizi bancari tracciabili
  5. accesso al riparto dei fondo di prevenzione e solidarieta’ per le vittime di richieste estorsive e dell’usura e ai contributi per attivita’ di assistenza e monitoraggio, fondi di garanzia e solidarieta’ di futura istituzione
  6. donazioni integralmente deducibili per il donatore (trattamento fiscale simile a quanto previsto art 100 TUIR lett f) c2 )

Un Osservatorio

Infine, andrebbe prevista l’istituzione di un osservatorio nazionale, con il compito di raccogliere informazioni sul settore, facilitare gli scambi di buone pratiche, garantire la trasparenza sull’offerta di prodotti di microcredito, pubblicare un rapporto annuale sullo stato del microcredito in Italia, sostenere iniziative per la promozione e la diffusione delle pratiche per i donatori nel settore della microfinanza.

Ultima, la cosa piu’ semplice e ovvia: quando una banca rifiuta un prestito deve consegnare al cliente rifiutato un elenco degli operatori di credito sociale autorizzati. Cosa ci vuole ? Eppure, gli effetti sarebbero stratrosferici.

In presenza di queste 4 condizioni:
  1. minori costi di acquisizione cliente
  2. minore pressione sul funding e integrazione verticale con una banca
  3. alleggerimento delle inevitabili perdite su crediti
  4. contesto normativo coerente con il mestiere
il microcredito cresce e si sviluppa, altrimenti sarà solo un esperimento faticoso per azionisti, finanziatori e amministratori.

Vi sono buoni esempi in Europa?

Sì, soltanto due:

  1. in Spagna Microbank è una banca del gruppo La Caixa, fruisce in toto dei servizi della casa madre e ha il ruolo di fare da filtro/incubatore dei clienti non bancabili o a reddito troppo basso, ottenendo risultati straordinari.
  2. in Romania esisteva un ottimo operatore di microcredito, Patria Credit, non riusciva a ottenere quanto ho descritto sopra e si è comprata una banca, integrando verticalmente le due attività in Patria Bank, un successo.



 

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